L’emergenza sanitaria ha fatto sì che le aziende italiane si affidassero sempre più allo smart working e, mentre ci si interroga su cosa accadrà con la ripresa dopo la pausa estiva, urge una riflessione su una particolare declinazione nostrana: il south working.
Proprio come lo smart working tradizionale, il south working offre ai lavoratori la possibilità di lavorare in maniera flessibile e autonoma in termini di scelta di orari, spazi e strumenti. Il nome del fenomeno nasce dall’associazione no profit “South working – Lavorare dal Sud” fondata dalla ricercatrice palermitana Elena Militello. Gli scopi perseguiti sono proprio il sostegno a questa modalità di lavoro, il supporto ai south worker attraverso la promozione di uno stile di vita sostenibile e lo sviluppo di condizioni di lavoro al Sud tali da mantenere alti i livelli di produttività e, al tempo stesso, contribuire alla crescita del territorio. Il concetto di Sud promosso è relativo poiché viene promossa, di fatto, la possibilità di lavorare da qualunque luogo. Dati recenti pubblicati proprio dall’associazione South Working dimostrano che l’85,3% degli intervistati lavorerebbero volentieri dal Sud mantenendo la propria occupazione in smart working: di questi, l’80% ha un’età compresa tra i venticinque e i quarant’anni e il 63% dispone di un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Quali sono i benefici del south working?
Innanzitutto, occorre ricordare come la flessibilità e l’autonomia influiscano positivamente sulla produttività e sul senso di responsabilità dei lavoratori. Secondo una ricerca condotta da Datamining per Svimez, inoltre, le imprese ne traggono vantaggio in termini di contenimento di costi legati alle sedi fisiche e di motivazione dei dipendenti che, a loro volta, sperimentano soluzioni abitative a costi più contenuti e costi della vita decisamente inferiori rispetto ai grandi centri urbani del Centro e del Nord. Il south working consente anche di lavorare in contesti più vicini alla propria famiglia, ma la ricerca ha evidenziato svantaggi quali maggiori difficoltà legate ai trasporti e minori occasioni di fare carriera.
Si innescherà quindi un processo di reverse brain drain?
Probabilmente una risposta non c’è ancora, ma possiamo ricavare alcune considerazioni. Il lavoro non è più l’unica determinante nelle scelte di mobilità geografica dei lavoratori: a guidarle, oggi, sono anche l’offerta d’intrattenimento, l’efficienza dei servizi pubblici e del sistema dei trasporti. Trasferirsi da una grande città a un piccolo centro del Sud Italia significa perdere l’accesso a molti di questi vantaggi.La seconda considerazione riguarda le aziende: se da una parte diverse imprese intendono proseguire con il lavoro da remoto, queste non hanno alcun controllo sull’iniziativa dei lavoratori di intessere relazioni sociali oppure ricercare opportunità di crescita nell’ambito del tessuto urbano che li circondano, quindi non dovrebbero condizionare le scelte organizzative su fenomeni che esulano dal proprio controllo.
Servono quindi nuove policy e nuovi strumenti: il south working rappresenta un’occasione di rilancio per la riduzione della disparità economica e sociale nel nostro Paese e consentirebbe di creare reti territoriali utili per accelerare l’innovazione del Mezzogiorno e del Paese.