Per disruptive innovation si intende «un processo attraverso il quale un prodotto o un servizio alimentato da un abilitatore tecnologico si radica inizialmente in semplici applicazioni nella fascia bassa di un mercato, dato che, in genere, è meno costoso e più accessibile, per poi muoversi inesorabilmente verso il mercato di fascia alta, sostituendo infine i concorrenti consolidati». Così descriveva il fenomeno di un’innovazione capace di travolgere e spazzare via business consolidati Clayton Christensen, docente presso l’università di Harvard e padre della disruptive innovation stessa. L’espressione compare per la prima volta nel paper “Distruptive innovation: catching the wave” pubblicato sull’Harvard Business Review proprio da Christensen e scritto in collaborazione con Josepho Bower. Il concetto, approfondito poi nel libro “Il dilemma dell’innovatore: la soluzione. Creare e mantenere nel tempo business innovativi e di successo” è semplice: le aziende piccole e medie che sanno ascoltare i consumatori, anticipare le risposte ai bisogni emergenti – grazie anche a tecnologie dirompenti, con costi bassi e migliori prestazioni – hanno grandi possibilità di successo.
Disruptive technology, disruptive innovation e creative destruction
Le tecnologie dirompenti, o disruptive technologies, sono quelle caratterizzate da costi e prestazioni inferiori – misurati in base a criteri tradizionali – che tuttavia si traducono in migliori prestazioni ausiliarie. Per Christensen, queste possono irrompere sui mercati emergenti e contribuire in maniera decisiva alla loro espansione, grazie a miglioramenti costanti nel tempo.
Le disruptive innovation, quindi, basate su disruptive technology, non sono innovazioni rivoluzionarie tout court, ma consistono in prodotti e servizi accessibili, convenienti e semplici da utilizzare, in grado tuttavia di rivoluzionare radicalmente ogni business.
Alla base della disruptive innovation ritroviamo infatti la teoria di Joseph Schumpeter sull’innovazione e sull’imprenditoria: «Non è imprenditore (…) chi compie operazioni economiche intendendo lucrarne profitto, bensì colui che introduce atti innovativi». A questa, Schumpeter affiancò la teoria della creative destruction, cioè del «processo di mutazione industriale che rivoluziona incessantemente la struttura economica dall’interno, distruggendo senza sosta quella vecchia e creando sempre una nuova». Lo scopo della distruzione creativa è offrire una sostituzione di un prodotto esistente, spesso con una soluzione non solo migliore ma anche più economica.
Distruptive innovation, alcuni esempi
Sono molte le innovazioni recenti capaci di rivoluzionare un modello di business preesistente e, al tempo stesso, ridefinire i confini dell’area competitiva stravolgendo le abitudini dei consumatori.
Alcuni esempi ci vengono da Wikipedia, Spotify e Netflix: si tratta di imprese che hanno rivoluzionato i rispettivi mercati, cambiando il modo in cui ci informiamo, ascoltiamo musica e guardiamo film o serie tv. Le innovazioni messe in campo sono state in grado di danneggiare in poco tempo imprese consolidate, anticipare bisogni sottesi dei consumatori e creare una domanda dove prima non c’era.
I cambiamenti della disruptive innovation non sono poi così complessi dal punto di vista tecnologico, ma le caratteristiche e le funzionalità messe in campo sono nuove rispetto all’offerta di un mercato spesso saturo. Ma c’è di più: queste innovazioni non sono guidate dal mercato, bensì da un modo nuovo di intendere prodotti e servizi nel nome di una maggiore semplificazione e democratizzazione voluta dai consumatori stessi. Maggiore accessibilità, quindi, e soprattutto prezzi ridotti.
Disrupter per eccellenza: le startup
Le startup sono i disrupter per eccellenza, grazie a dimensioni aziendali ridotte, strutture organizzative flessibili e maggiore propensione al rischio. Netflix, ad esempio, nasceva come servizio di noleggio di videogiochi, VHS e DVD via posta.
Le idee dirompenti, tuttavia, non bastano: è necessaria una strategia che valorizzi prodotti – ovviamente capaci di offrire valori aggiunto – ma anche canali di distribuzione sviluppati, una comunicazione efficace e una propensione a processi di innovazione continua.