Quella delle competenze è una tematica intorno alla quale si continua a discutere, anche – e soprattutto – a causa della discontinuità provocata dall’emergenza sanitaria e dall’impellente necessità di rivedere i processi di gestione delle risorse umane.
Già nel 2016 la Commissione Europa l’aveva fatta propria, con l’istituzione della cosiddetta VET Week (Vocational education and Training) che ha lo scopo di valorizzare tutti i progetti di formazione presenti sul territorio europeo, dal National Contact Point a network come Enaip Net. L’Unione Europea intende infatti aiutare le imprese degli Stati membri a diventare maggiormente competitive attraverso lo sviluppo di nuove competenze in ambito green e l’utilizzo degli strumenti digitali nell’ottica di rendere i processi produttivi più sostenibili.
Competenze sì, ma miste
Il piano ambizioso dell’Unione Europea non può che concretizzarsi attraverso competenze miste, incrementate cioè da skills digitali. Innalzare il livello della formazione, inoltre, significa innanzitutto puntare all’alfabetizzazione digitale dei lavoratori attraverso percorsi di upskilling e reskilling cuciti sulle esigenze di ciascuno. Le aziende necessitano oggi di profili specializzati, sia in termini qualitativi che quantitativi, e iniziano a interpretare esperienze quali smart working e great resignation alla luce della possibilità concreta che alcuni lavori possano essere svolti a distanza e che alcune mansioni siano maggiormente oggetto di cambiamento digitale rispetto ad altre. Queste professioni, in particolare, necessitano di un aggiornamento costante: i lavoratori dovranno necessariamente essere sempre più digitali e preparati a interfacciarsi con sistemi in continua evoluzione. I capisaldi della formazione sono e continueranno a essere quelli della competitività e dell’inclusione e l’attore chiamato a recitare un ruolo da vero protagonista nel percorso formativo sarà l’azienda.
La situazione italiana
Il tessuto economico e industriale italiano si caratterizza da imprese medio-piccole e non di grandi organizzazioni, che spesso inglobano al loro interno tutor e centri dedicati alle attività di tutoring. È auspicabile, perciò, che le aziende investano in queste figure educative affinché accompagnino sia i talenti in entrata, trasferendo loro cultura e identità aziendali, che le risorse già presenti.
Il nodo da sciogliere nel nostro Paese riguarda innanzitutto le lacune strutturali, che impediscono interventi rapidi nell’evoluzione delle modalità didattica in un sistema educativo che, comunque, presenta moltissime eccellenze. In quest’ottica, per favorire l’incremento delle capacità logiche e matematiche, si potrebbe valutare l’attivazione di percorsi formativi innovativi, basati su modelli di interazioni nuovi e modalità didattiche nuove come gamification e percorsi gaming based learning. Pensati per non incidere sul processo lavorativo ed essendo facili da recepire per i lavoratori, costituirebbero una risorsa preziosa soprattutto per la fascia compresa tra i 40 e i 50 anni, che costituisce il target principale cui rivolgere le soluzioni formative. In Italia, la formazione è spesso demandata alle Regioni: alcune di queste più ricettive – il 10% degli studenti delle scuole superiori del Nord Italia consegue un diploma in istituti professionali – e altre meno.
I fondi del PNRR potrebbero, perciò, contribuire a dar vita al circolo virtuoso dello sviluppo di competenze dedicate, sulla scia di percorsi di formazione professionali che la Commissione Europea vede innanzitutto come prima scelta di indirizzo didattico e poi come – proficuo – sbocco nel mondo del lavoro.